8 Trilioni di dollari, questa fu la cifra che venne bruciata nella bolla tecnologica di inizio millennio. Come tutte le bolle degli anni passati, una delle cause scatenanti della bolla Internet (o bolla “dotcom”) fu l’avvento di una nuova tecnologica (internet appunto) che generò una vera e propria corsa a qualunque titolo azionario avesse in qualche modo un legame con questa fantastica ed incredibile opportunità.

Come descritto poi ampiamente dal professor Robert Shiller, la crescita delle azioni tecnologiche venne letteralmente pompata dai media, spingendo così ancora più persone a comprare, creando i presupposti per una rapida salita delle quotazioni ma allo stesso tempo gettandone le basi per il successivo crollo.

Dal 1998 al 2000, come si può vedere dall’immagine sopra riportata, l’indice Nasdaq più triplicò le sue valutazioni, con alcuni titoli che IN ASSENZA DI UTILI presentavano multipli di P/E (prezzo – utili) superiori a 100.

Il problema era che oltre ai media anche la gente comune credeva che fosse arrivato “Babbo Natale” a far diventare tutti ricchi, pertanto gli acquisti si riversarono sul mercato e tutti quanti erano convinti che quello stato di crescita perenne sarebbe durato per sempre.

Chiaramente nessuno si poneva la domanda “fino a quando sarebbe potuta continuare quella situazione”, poiché un titolo con una capitalizzazione di mercato di 600 Miliardi di dollari, ed una crescita degli utili del 15%, se avesse mantenuto tali valori sarebbe in poco tempo diventata più grande del PIL americano.

In tutto questo, gli analisti (pagati per dare giudizi nella maggior parte dei casi erronei ed in conflitto di interessi) continuavano a proiettare stime di crescita irrealistiche, alimentando la bolla…che alla fine scoppiò.

Il calo fu tremendo, con i principali titoli tecnologici che arrivarono a perdere mediamente il 96% del proprio valore nel giro di 1 anno, e si…molta gente perse tutti i propri risparmi.

Arrivando al giorno d’oggi, abbiamo una situazione dove 5 titoli rappresentano 1/5 della capitalizzazione dello S&P500, il principale indice americano, stiamo parlando di Amazon, Facebook, Alphabet (Google), Microsoft ed Apple.

Insieme, queste 5 aziende capitalizzano quasi 6.500 miliardi di dollari (o 6.5 Trilioni di Dollari fate voi). Tanto per capirci, 1/3 del PIL degli Stati Uniti.

Aziende come Tesla, che per carità, si dirà “anticipatori del futuro”, pionieri dell’elettrico, che tuttavia capitalizza oltre 200 Miliardi di dollari (più di Toyota) ma che vende 500.000 auto all’anno (contro le 10 Milioni della casa giapponese) e che soprattutto non ha mai chiuso un anno in profitto, misteri del periodo attuale.

Ma se la storia ci insegna qualcosa, le nuove tecnologie (elettrico), l’eccitazione per grandi personaggi che guidano aziende innovative (vedi Elon Musk) indubbiamente di grande personalità, la spinta dei media (soprattutto il web ai giorni nostri) sono sempre causa di grandi speculazioni.

Fino a dove possono arrivare non ci è dato saperlo, ma su una cosa siamo certi: alla lunga la realtà prevale sempre, nel bene e nel male.

La crescita dei corsi azionari relativi alle aziende sopra elencate (Tesla su tutti), sono strettamente collegati alle previsioni di crescita molto positive per quel che riguarda fatturato e utili.

A livello teorico è ben dimostrato che sostenere questi tassi di crescita è praticamente impossibile.

Diversi sono i motivi che ci spiegano questo aspetto: la grandezza dell’azienda, il vantaggio competitivo e la predominanza sui competitors.

Immaginate per esempio un’azienda che fattura 500 milioni e una che fattura 10 miliardi.

È Ovviamente più probabile che l’azienda con un fatturato minore (in un mercato in crescita) abbia più probabilità di raddoppiare il fatturato dell’azienda che fattura 10 miliardi.

Il modello di crescita perpetua nel DCF ipotizza quasi tutte le strutture possibili per quanto riguarda opzioni di crescita straordinaria.

Esiste il modello più comune, a due fasi, ovvero quello in cui si inserisce una parte a crescita straordinaria e una a crescita perpetua (inferiore al tasso di crescita dell’economia).

Il secondo modello possibile è quello che prende in considerazione due fasi, senza una crescita esponenziale nel primo periodo e con una crescita costante nella seconda fase.

Il terzo modello che è quello che si potrebbe utilizzare con tesla è quello in tre fasi:

Una crescita straordinaria nella prima fase, una crescita sopra la media del mercato nella seconda fase e una crescita perpetua nella fase finale.

Prendendo ad esempio il caso Tesla, anche valutandola con il terzo modello, inserendo dei tassi di crescita molto elevati e una creazione di utile basata solo su previsioni, quindi impossibile comprendere quanto effettivamente sarà redditizia, il valore che ne viene fuori è inferiore a quello attuale.

Immaginando un tasso di crescita incredibile nei prossimi anni, arriviamo ad un fatturato di 250 miliardi (ne fattura 25 ad oggi) con una redditività del 10% (il doppio di una casa automobilistica di lunga data come Volkswagen) l’utile netto sarebbe di 25 miliardi. E fa strano pensare che sia il fatturato attuale.

Dai quei 25 miliardi in modo molto molto approssimativo sottraiamo un 20% dell’utile per Capex.

E abbiamo un flusso di cassa gratuito (è molto inesatto come dato, ma sono voluto essere molto ottimista) di 20 miliardi che scontati ad un tasso compreso tra il 7% e il 9% (tasso più alto della media dato il tipo d’azienda e il periodo molto lungo di analisi), ci “regalano” un valore attuale netto compreso tra i 220 miliardi e i 285 miliardi.

La capitalizzazione attuale di Tesla è di 300 miliardi.

È come se il mercato scontasse 15 anni di crescita ad oggi. Un gioco molto pericolo quando si parla di valutazione d’azienda.

Ed inoltre per poter sostenere tassi di crescita elevati, tutte le aziende devono essere leader assolute nel loro mercato, avere pochi competitors e strutture aziendali che fanno la differenza sul lungo periodo.

Tutti questi fattori non sono affatto scontati, non è semplice essere i leader indiscussi in un settore.

Se solo una piccola variabile legata alla forza aziendale o alla quota di mercato dovesse variare, i tassi attuali di crescita si scoprirebbero insostenibili e al tempo stesso la quotazione ne risentirebbe.

Come ha ricordato Francesco Casarella nella prima parte del post, alla fine “della fiera” il reale valore delle aziende è destinato a venire allo scoperto e una quotazione esagerata, il mercato non la perdona mai.

Articolo scritto a due mani con Francesco Casarella di Colazione a Wall Street!